Parete Nera di Caprie – Ugo Manera racconta

Parete Nera di Caprie. Ugo Manera racconta...

Il racconto del grande Ugo Manera sulla scoperta ed apertura delle vie alla Parete Nera di Caprie all’inizio degli anni ottanta.

Ringraziamo di cuore Ugo, che nel 2016 ha scritto per Montagna Biellese questo bellissimo racconto.

Ugo Manera in apertura sulla Parete Nera (Foto archivio di Ugo Manera)

Parete Nera di Caprie

Caprie è un paese della bassa Valle di Susa posto sul lato più soleggiato della valle; è disteso sul piano ma le ultime case a Nord sono appoggiate ad un ripido pendio scosceso formato da numerosi salti di roccia di varia altezza circondati da un bosco caotico, reso a tratti  impenetrabile dai rovi. Il pendio termina con un’ampia calotta di roccia che verso Sud cade con una imponente parete rocciosa. Localmente questa parete era denominata Rocca Bianca anche se di bianco ha ben poco. Queste rocce non hanno un aspetto invitante per gli scalatori; almeno per gli alpinisti di stampo classico che vedevano le rocce di bassa quota come possibili palestre, utili ad affinare la preparazione tecnica e l’allenamento per l’alta montagna.

Poi avvenne una piccola rivoluzione nel mondo della scalata nostrana all’inizio degli anni ’70, avviata con la scoperta del Caporal in Valle dell’Orco. Questo evento ci portò gradatamente a considerare le pareti a bassa quota non più come palestre di arrampicata, ma come obiettivi fine a se stessi. Cominciammo a considerare ogni formazione rocciosa degna di essere scalata, da affrontare con il massimo dell’impegno. In quest’ottica anche le poco invitanti pareti che sovrastano Caprie cominciarono ad attirare gli scalatori che, come prima difficoltà, dovettero aprirsi il passaggio nell’intricato groviglio di rovi.

Il primo ad avventurarsi sulla Rocca Bianca fu Isidoro Meneghin che vi tracciò in solitaria un itinerario bello ed impegnativo il 6 marzo 1977, ricorrendo ad una sofisticata tecnica di arrampicata artificiale. Isidoro era molto riservato e restio a comunicare ad altri le notizie sulle scalate compiute, soprattutto se queste erano “prime” su terreno sconosciuto. Delle nuove vie aperte quasi sempre stendeva relazioni tecniche accurate e precise, ma raramente le diffondeva, le teneva archiviate per se. Proprio in quel periodo avevo cominciato a scalare con Isidoro e formavamo sovente copia fissa. Ambedue avevamo come obiettivo primario la scoperta di pareti sconosciute e l’apertura di nuove vie. Il mio amico non amava il ghiaccio ed il misto e su questi terreni era compito mio scalare da primo di cordata, sulla roccia invece salivamo quasi sempre a comando alterno.

Qualche anno prima, nel 1972, il Caporal rappresentò, per Gian Piero Motti e per me, il coronamento naturale di una ricerca iniziata alla fine degli anni ’60. Le falesie stavano diventando per noi sempre di più terreno di avventura e di ricerca; era nostro obiettivo tracciare vie che andassero oltre il livello raggiunto dalla generazione che ci aveva preceduto. Cominciammo a tracciare nuovi itinerari nei luoghi noti, poi scoprimmo il Bec di Mea in valle di Lanzo ma in tutti quei luoghi non trovammo quello che stavamo cercando. Il futuro ci aspettava sui dirupi di Balma Fiorant in valle dell’Orco. Al Caporal, Sergent, Parete delle Aquile creammo qualcosa che, dalle nostre parti, prima non esisteva.

Tale esperienza per me non si concluse lì ma continuò negli anni a seguire, sempre alla ricerca di qualche realizzazione che portasse in avanti i limiti che avevo raggiunto in precedenza. Isidoro era in sintonia con me nella scelta dei nuovi obiettivi e fu perseguendo quest’ottica che scegliemmo di andare a “vedere” la Rocca Nera di Caprie.

Per rendere comprensibile il mio modo di scalare di quel tempo è necessaria ancora una precisazione; al Caporal avevo fatto un’altra esperienza: l’uso del perforatore. Quando con Motti aprimmo la via della Rivoluzione sullo Scudo del Caporal usammo 5 chiodi a pressione e siccome il tiro chiave toccò a me, fui io a praticare i 5 fori con il punteruolo per infiggere i  “pressione”. Furono gli unici fori della mia carriera, dopo quella volta scelsi di non portare mai più con me il perforatore nell’apertura di nuove vie. La mia decisione non derivò da una scelta etica, io non avevo nulla contro chi usava con parsimonia chiodi a pressione, semplicemente preferivo non portarli dietro come ancora di salvezza; le chiodature estreme mi esaltavano, mi consentivano di sfidare l’impossibile ma di riconoscere che l’impossibile esisteva. La consapevolezza di avere con me un mezzo (il punteruolo o il trapano) che mi avrebbero permesso di passare anche dove non ero più capace di infiggere qualcosa nella conformazione naturale della roccia, avrebbe certamente affievolito la mia determinazione e mi avrebbe indotto nella tentazione di “assassinare l’impossibile”

Isidoro la pensava come me e per noi praticare fori nella roccia era escluso. Quando decidemmo di tentare la Rocca Nera fummo ingannati dal suo aspetto un po’ tetro offerto dalla sua vista dal fondovalle; ci aspettavamo di dover affrontare grandi difficoltà e di dover ricorrere a tutta la nostra abilità di chiodatori esperti, cosi partimmo carichi di materiale pensando di dover ricorrere all’arrampicata artificiale sofisticata. Per raggiungere la parete, esclusa la salita diretta da Caprie per il timore dei rovi, effettuammo la salita per il sentiero che porta a Campambiardo poi con laboriosa traversata verso sinistra guadagnammo la base della Rocca Nera.

La salita ci riservò due sorprese: una negativa ed una positiva; la prima fu che la via si dimostrò molto più facile di quanto ci aspettavamo, gran parte del materiale portato si dimostrò inutile, sotto quel punto di vista provammo un po’ di delusione. La seconda fu che la via si dimostrò più bella di ogni nostra aspettativa e questo cancellò ogni traccia di delusione. A portare al massimo livello il nostro entusiasmo fu la costatazione fatta sul posto che la Rocca Nera aveva ancora ben altro da offrirci e ci apparve evidente che per il futuro avremmo trovato abbondante pane per i nostri denti. Era il 10 febbraio 1980

Alla Parete Nera ci tornai altre 5 volte per tracciare altrettante vie; due volte ancora con Meneghin, una volta con Claudio Sant’Unione e due volte con Gian Piero Motti. Già dalla seconda volta la musica cambiò, sullo spigolo Sud Est (Seconda Via) dovemmo impegnarci a Fondo per passare, ricorrendo a tutta la nostra abilità nella chiodatura ed a un bel po’ di coraggio. Motti ripeté la via poco dopo e confermo le elevate difficoltà.

Gian Piero Motti si appassionò alla Rocca Nera, lasciando libera la fantasia nell’arrampicare tra quelle rocce scure un po’ tetre e scostanti; indovinava tra di esse un mondo misterioso, un po’ magico che lo faceva sognare; ritornò più volte ad aprirvi vie in perfetta solitudine per assaporare le sensazioni che quel micro ambiente sapeva dargli. Invito chi legge queste note ad andare a cercare, magari nelle biblioteche delle sezioni CAI, Scandere 1983 ed a leggere la bella monografia che Motti scrisse su Caprie, quasi un testamento pochi mesi prima della sua morte.

Il nostro limite, Meneghin ed io, lo raggiungemmo però aprendo la Terza Via (Gran Diedro) nel marzo 1981; su quella via mi toccò superare uno dei passaggi più difficili incontrati nella mia carriera di scalatore. Impiegai due ore a superare 20 metri. La prima ripetizione di questa via venne effettuata da Gian Carlo Grassi, Gian Piero Motti e Vincenzo Pasquali. Divertente e colorito racconto che mi fece Motti di questa ripetizione: giunti al mal passo era in testa Grassi, provò più volte a salire ma non c’era verso di passare, perse la pazienza, cominciò ad inveire e gridava: (mi raccontò Motti) << Non è possibile, questi qua si sono drogati per passare qui >>. Finalmente riuscì a piazzare un chiodo aleatorio un po’ più in basso di dove ero passato io e riuscì ad andare oltre l’ostacolo. Passo Motti, poi da ultimo Pasquali, si appese al chiodo che si sfilò ed egli fece un lungo pendolo, picchiò contro la roccia fratturandosi un piede. Raccontando questo episodio che coinvolse quei miei cari amici, mi coglie un attimo di nostalgia: nessuno di loro è ancora in vita.

La mia storia con la Parete Nera non era ancora finita, ritornai ad aprire altre tre vie, sempre impegnative ed avvincenti, ma meno difficili della seconda e della terza. Credo che in alcuni tratti dei percorsi da noi tracciati, abbiamo stabilito i livelli massimi di difficoltà sulle nostre falesie prima dell’avvento dell’arrampicata sportiva e dell’impiego sistematico dello spit. Successivamente sono state aperte altre vie attrezzate a spit/fix, alcune di queste, come spesso accade, invadono il tracciato delle vie da me aperte snaturandone un po’ le caratteristiche per cui oggi può essere difficile rintracciare i percorsi originali. Altre, come la prima via tracciata, sono state riattrezzate e questo a me non spiace. Certo è che su quella insignificante roccia della bassa Valle di Susa ho vissuto delle belle ed intense avventure che,  nelle condizioni attuali, sono ormai irripetibili. Per me le avventure che ho vissuto scalando, ove spesso raggiungevo il limite delle mie capacità, sono state una cosa importante e mi fa sempre piacere riviverle raccontandole.

Ugo Manera 14/04/2016

Ugo Manera

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