Guido Machetto

Personaggi: Guido Machetto

Guido Machetto, alpinista e poeta (1937-1976).

Come succede a molti artisti per Guido è stato molto difficile in vita essere profeta in patria: l’ambiente alpinistico locale di allora non lo amava e, se possibile, lo osteggiava in più occasioni. Per fortuna oggi le cose sono cambiate ed al personaggio è stata data la giusta luce.

Conoscendolo, non era difficile scambiare la sua schiettezza per scontrosità; in più, come tutte le persone che percorrono nuovi cammini, spesso non veniva capito o faceva comodo non capirlo.

Leggendo i suoi scritti privati emerge il poeta che si affianca all’alpinista.

Guido Machetto muore il 24 luglio del 1976 in un banale incidente al Pilier Bernezat sulla Tour Ronde: lo ricordano gli articoli Guido Machetto e il ladro di chiodi di Gianni Lanza e Guido Machetto, il sognatore che ha cambiato l’alpinismo di Alessandro Gogna

Guido Machetto sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo

Sulla città di Biella scriveva:

Di Biella amo soprattutto i dintorni. Chi è fortunato ed abita agli ultimi piani delle case può vedere la cerchia di montagne che protegge la città verso nord.

A Biella ci ritorno sempre volentieri; è la mia città anche se per lavorare me ne sono dovuto andare, come coloro che non hanno voluto mangiare la minestra e sono saltati dalla finestra.

Alla mia città devo l’amore per la montagna.

Per me una città vale l’altra, conta di più la gente che ci vive, ma la realizzazione di me stesso più vicina non penso che l’avrò mai tra la gente ma piuttosto in un angolo di mondo dove vi sia natura e molta semplicità nelle cose.

In arrampicata

Le salite

Prime salite

  • Monte Bianco – Pointe des Hirondelles – Cresta Est – prima salita con  Renzo Coda Zabetta, Carlo Pivano, Fulvio Ratto, Beppe Re, Franco Riva, Bruno Taiana, Nino Zappa nel 1962
  • Becco Meridionale della Tribolazione – Parete Est – prima salita con Bruno Taiana e Beppe Re nel 1965
  • Monte Bianco – Aiguille d’Entreves – Parete Ovest – prima invernale con Pietro Ferraris e G. Ambrosi nel 1967
  • Monte Bianco – Tour Ronde – Pilier Bernezat – prima invernale con Gian Piero Motti nel 1968
  • Monte Bianco – La Vierge – Parete Ovest – prima salita con Giorgio Bertone nel 1968
  • Grivola – Parete Nord Est – prima invernale con Alessandro Gogna, Gianni Calcagno e Leo Cerruti nel 1970 (vedi l’articolo dedicato all’invernale alla Grivola di Alessandro Gogna su GognaBlog)
  • Monte Cervino – Picco Muzio – prima salita (Via dei Fiori) con Gianni Calcagno Leo Cerruti, Carmelo Di Pietro nel 1970 (vedi l’articolo dedicato alla salita sul Picco Muzio di Alessandro Gogna su GognaBlog)
  • Monte Bianco – Cresta di Peuterey – importante tentativo invernale conclusosi oltre la vetta del Pilier d’Angle con Alessandro Gogna, Gianni Calcagno e Bruno Allemand dal 8 al 17 febbraio del 1971 (leggi lo scritto di Alessandro Gogna sull’impresa su GognaBlog)
  • Scoglio di Mroz – Parete Sud – prima salita con Alessandro Gogna, Miller Rava, Carmelo Di Pietro nel 1972 (vedi l’articolo dedicato allo Scoglio di Mroz di Alessandro Gogna su GognaBlog)
  • Monte Bianco – Tour Des Jorasses – Diedro Sud – prima salita con Gianni Calcagno e Leo Cerruti
  • Grandes Jorasses – Parete Sud – prima salita con Alessandro Gogna nel 1972, (leggi lo scritto di Mario Pozzo su GognaBlog)
  • Monte Bianco – Aiguilles des Glacier – Sperone Est – prima salita con Miller Rava nel 197
  • Mont Greuvetta – Parete sud ovest – rima salita con Carmelo Di Piero e Lino Candot il 20 luglio 1972
  • Dome de Cian – Parete Nord – con Graziano Ambrosi il 10 gennaio 1967

Alpinismo

  • Grandes Jorasses – Parete Nord – Via Cassin – prima ripetizione in giornata nel 1962
  • Monte Bianco – Via della Poire
  • Mont Blanc de Tacul – Pilier Gervasutti
  • Mont Blanc de Tacul – Pilier Trois Pointe,
  • Monte Bianco – Grand Capucin – Via degli Svizzeri
  • Cima Grande di Lavaredo – Parete Nord – Via Comici

…e moltissime altre salite estreme e classiche in tutto l’arco alpino.

Sulla Via Contamine alla Pointe Lachenal
Durante la prima invernale alla Grivola

Commando

So che per me non è come quando comandavo un squadra di paracadutisti sotto la potenza della disciplina militare; qua posso sperare solo nella loro lealtà, ma so che ognuno deciderà per se fino a che punto dovrà rischiare e io non potrò farci niente.

Quella sera a casa di Gianni [Calcagno] parlai quasi sempre io. Seduto dall’altra parte del tavolo lui ascoltava attento, riceveva le notizie, le separava e le catalogava nella sua mente perché sapeva che alla fine del mio discorso doveva darmi una risposta. Giovanna, sua moglie, si dava da fare in cucina; a prima vista sembrava intenta ai suoi lavori, ma sono certo che non perdette una sola parola di quello che si disse quella sera. E’ duro essere la moglie di un alpinista come Gianni, perché lui è uno che prende delle posizioni e le posizioni bisogna sostenerle e la sua donna deve essere lì al suo fianco a lottare per difendere il suo alpinismo, quell’alpinismo di cui farebbe volentieri a meno. Lei sa che Gianni continuerà a scalare e che un giorno potrebbe non tornare più dal Monte Bianco o dall’Himalaya, ma sa anche che deve stringere i denti. Andammo avanti un bel po’; Giovanna mise a letto la figlia, poi tornò e si sedette al tavolo, dicendo di parlare piano per non svegliare la bimba. La scena assomigliava a un convegno di maquis in un qualche casolare abbandonato; l’esposizione del piano prendeva forma, di quando in quando Gianni mi interrompeva per farmi domande, secche, brevi, col minimo spreco di parole. – Conosco il posto, in due possiamo farcela… 

La cosa più importante, però, e che raramente viene discussa, è il rapporto tra quello che si intende fare e come lo si intende fare; avendo giocato per molti anni sull’ignoranza del pubblico in materia, l’alpinismo di spedizione si è permesso talvolta di far passare per imprese memorabili alcune scalate, dimenticandosi di informare l’opinione pubblica sul rapporto uomini-mezzi-obiettivo. Perché un’impresa è grande solo se il rapporto è rispettato; come per la corrida, se qualcuno ne ha vista una o ne ha sentito parlare.

Ciò che andavo spiegando invece quella sera era qualcosa di totalmente diverso e rivoluzionario, o meglio evoluzionario.
– Solo noi due; dovremo agire come un commando. Ce la faremo, vedrai
.

Molta importanza riveste invece il fatto che, oltre all’abilità e ai talenti personali, ci deve essere l’uniformità di idee sulla maniera di intendere una scalata himalayana: il rischio è un inevitabile compagno che bisogna costantemente controllare, e la morte molto spesso fa la sua comparsa. Il membro di un commando deve avere una sua filosofia sulla morte come sulla vita, sul coraggio come sulla paura; le sue azioni e i suoi pensieri devono essere rivolti verso la conoscenza di se stesso invece che, come più facilmente accade, appigliarsi a soluzioni che questo tipo di società ha inventato a uso e consumo dell’interesse materiale.

– Bisognerà andare parecchio veloci…
– Eh sì, in due senza retrovie e nessun aiuto dal basso: tutto è nelle nostre gambe e nella nostra resistenza. I campi dovranno essere almeno a 700-1000 metri di dislivello uno dall’altro.
– … Ci faremo un culo che passa l’immaginazione!
– Sì, è come dici tu, però ammetti che è la sfida più bella che ti abbiano mai proposto…
– Maledetto Machetto…
– Allora?
– Allora, allora… Allora è sì, cosa potrebbe essere altro?

Sapevamo benissimo che questo gioco l’avremmo portato fino in fondo: scalare un monte di 7700 metri in due significava spezzare il vincolo di quella società civile che ti pone continuamente dei limiti. Avremmo dovuto essere spietati prima con noi stessi poi col compagno; l’Annapurna era su di noi: tre mesi contro il maltempo, gli uomini e la paura di aver paura. E adesso volevamo aprire un nuovo itinerario su quelle altitudini, in due. Ci saremmo dovuti allenare ad andare slegati sul difficile per essere veloci, ma soprattutto perché le difficoltà di uno non danneggiassero l’altro…

Non riuscivo a prendere sonno, avevo fumato troppo; niente in confronto a quello che aveva fumato la Giovanna che avviandosi verso la camera da letto aveva mormorato: “Cristo, si ricomincia!”.

Gogna Blog Estratto da La Stampa, 20 luglio 1975

Le spedizioni

  • Perù – Ande del Sud – Monte Sahuasiray – Spedizione Città di Biella nel 1963
  • Patagonia – Monte Bukland con Carlo Mauri nel 1966
  • Hindu Kush – Gokan Peak nel 1967
  • Karakorum – K6 – Spedizione CAI di Macerata nel 1969
  • Hindu Kush – Udren Zom e Shaka Ur – Spedizione Città di Biella nel 1971
  • Annapurna – tentativo allo Sperone Nord-Est – Spedizione Città di Busto Arsizio nel 1973. Nella spedizione perdono la vita Miller Rava e Leo Cerruti, travolti da un’enorme valanga
  • Tirich Mir – Tirich West II – con Beppe Re in stile alpino nel 1974. Ultimo 7.000 m inviolato del gruppo del Tirich
  • Tirich Mir – Sperone degli Italiani – con Gianni Calcagno in stile alpino nel 1975
Salita sul Tirich Mir allo Sperone degli Italiani, quota 7100 m s.l.m.
Sul Gokan Peak
Gianni Calcagno (sulla sinistra) e Guido Machetto (sulla destra) durante la spedizione del Tirich

Lasceremo ora che Guido Machetto si presenti da sé attraverso una lettera che egli stesso scrisse a Marino Stenico, trentino, Accademico del CAI.

Per comprendere la personalità di Guido Machetto riportiamo il commento che segue a chiusura della lettera:

Caro Stenico,

Non so cosa ti possa servire, ma se vorrai pubblicare il mio pensiero dovrai farlo senza cambiare una virgola e possibilmente facendomi vedere dove e insieme a quali altri scritti lo pubblicheresti.

Cordialmente

Ed ecco il suo scritto.

Provengo da una famiglia della piccola borghesia. Mio padre era ragioniere, mia madre casalinga, mia sorella anche ragioniera ed io fatalmente avviato verso il diploma di ragioniere. Non volli studiare, nessuno vuole studiare, con la differenza che io smisi veramente di studiare abbandonando la scuola al primo anno di ragioneria. Questo primo gesto di ribellione era determinato da una non ben chiara ripugnanza verso la banalità della vita come, dai pochi anni vissuti, facilmente ne potevo trarre la sintesi anche per il futuro.

Feci parecchi mestieri cercando di agire all’aria aperta ed evitando accuratamente di farmi strumentalizzare dalle proposte di  sistemazione offertemi dall’ambiente sociale dal quale provenivo. Andai a lavorare in montagna; niente di strano perché le montagne sono proprio sopra Biella, la città in cui sono nato. Feci un po’ di tutto, dal barista all’operaio fienatore, dal gestore di rifugio al cercatore di cristalli. Arrampicare era naturale pieno di vita com’ero e praticamente non affetto da desideri comuni come far soldi, farmi una posizione e godermela finché ero giovane. Dico naturale perché la gente di Biella ama le montagne e fin da piccolo mio padre mi aveva portato a fare gite ai rifugi; vi era poi in città un ambiente di scalatori di qualche valore. Mio padre morì senza avere il tempo di vedermi arrivare ad una conclusione qualsiasi come quella dei diplomi di guida alpina e maestro di sci che presi due anni dopo, a 23 anni.

Mi misi a girare stazioni invernali e a fare alpinismo d’estate accompagnando i pochi clienti che riuscivo a trovare in gite facili, alternandole con difficili ripetizioni delle grandi vie. Le mie conoscenze si andavano ogni giorno allargando ed in pochi anni le principali salite, simboli dell’alpinismo di livello erano sotto i miei piedi; le avevo superate quasi con facilità ma in quanto a concezione non mi sognavo ancora di poter prendere parte a quell’alpinismo che continuava a sintetizzarsi nelle guide Vallot o nelle letture dei “grandi”.

Uno dei momenti più importanti fu quando decisi di non praticare più il mestiere di guida. Il perché era semplice: fare la guida era un mestiere come un altro; esso mi aveva dato ben poco, sottolineando ancor più, se ce n’era bisogno, la mia incapacità di farmi integrare dall’andazzo di una società con la quale avevo poco in comune. Questo secondo gesto di ribellione mi aveva diplomato “essere pensante” e io guardavo con orgoglio e preoccupazione un avvenire fatto di dubbi e ragionamenti. Queste due cose mi avrebbero deputato ad essere molto umano ma mai un campione, di qualunque natura fosse; per essere un campione infatti occorrono pochissime idee e nessun dubbio, lo sanno tutti.

Cominciai a vendere articoli sportivi come rappresentante ed è ciò che faccio ancora adesso pienamente felice di poter abbandonarmi alla passione per le montagne che il professionismo rischiava di uccidere. La scelta si rivelò poi la più giusta; l’alpinismo tolto rare eccezioni non dà di che campare, meglio quindi un lavoro indipendente e scalare per pura passione.

Partecipai alla prima spedizione extraeuropea nel 1963; si trattava della spedizione Città di Biella alle Ande del Sud Perù. Fu questa una grossa scoperta per me; nelle spedizioni avrei trovato in seguito la pienezza dell’avventura umana che andavo cercando con in più un significato sociale che mi avrebbe fatto partecipe del cammino dell’uomo verso la scoperta della natura e di me stesso.

In Perù morì un componente sotto una scarica di sassi; anni dopo in Norvegia due compagni furono feriti sempre sotto scariche, all’Annapurna in Himalaia una valanga uccise due compagni di spedizione. Come scriveva Terray  “Una spedizione è una grande avventura umana, in una confusione di sole e di fango, di grandezza e di meschinità, di dolore e di gioia…” Un avventura lunga e complessa che richiede uomini maturi, e non basta ancora: devono essere maturati senza retorica, senza complessi religiosi o paure ataviche, senza presunzioni o idee borghesi. In Italia credo che siano abbastanza rari gli uomini buoni per una grossa avventura, (l’ho sperimentato personalmente) perché non sanno e non hanno voglia di soffrire e di acquisire conoscenza.

Dal mio primo viaggio in Perù ne feci altri con compagni diversi, famosi e sconosciuti; durante le ultime spedizioni che ho condotto “all’alpina” ho raggiunto il risultato di essere scalatore in Himalaia come lo ero 15 anni prima sulle Alpi quando facevo la Walker in dodici ore. Avevo vinto tutte le preoccupazioni, i pregiudizi, le nostalgie, i complessi che quasi tutti gli scalatori, grandi o piccoli che siano sulle Alpi, si portano dietro per affrontare l’Himalaia.

Alternavo ai viaggi extraeuropei scalate sulle Alpi. Se vi è una cosa che mi è sempre piaciuta, è stato di cambiare continuamente compagno di cordata; cercare di conoscere più gente possibile fa anch’esso parte dell’ alpinismo, perché l’alpinismo non bisogna mai stancarsi di spiegarlo specialmente a chi non lo pratica. Ricordo che Alberto Pinelli mi aveva visto una volta sola e per 5 minuti quando l’anno dopo mi invitò ad andare con lui in Indu-Kush, e fu un esperienza basilare sia per la bella scalata (Parete Nord del vergine Goran Peak di 6200 m ed eravamo solo noi due) sia per ciò che ho potuto imparare da un uomo profondo come lui.

La ricerca è da almeno 10 anni a questa parte uno dei miei pallini. Per ricerca intendo, oltre che cercare nuove soluzioni, il miglior rapporto tra ciò che si fa e come lo si fa; questo specialmente in Himalaia dove molta gente racconta balle ad un opinione pubblica che è ignorante. E così l’Everest di Monzino e le vie a pressione di Mauro e Minuzzo non fanno parte del mio mondo e non mi interessano. Mentre mi piace scalare con gente sempre nuova, non sono per niente scontento di ripetere il medesimo itinerario più volte. Non tutti gli alpinisti sono così ma io dico che una Sud della Noire bisognerebbe farla sei volte per gustarla, e le Nord di ghiaccio delle nostre parti come Grivola, Gran Paradiso, Breithorn e Liskamm, ripeterle ogni anno in primavera per allenamento. Certamente per esempio la Ovest della Noire e del Dru basta una volta sola percorrerle, ma le classiche che non richiedono grosso sforzo, solo alla quarta volta si possono gustare veramente.

L’alpinismo di spedizione è un attività complessa della quale l’abilità tecnica, basilare sulle Alpi, è solo una componente; le qualità umane come forte carattere, lealtà, risolutezza e coerenza, qualità che nella società moderna si perdono nei meandri del compromesso, sono elementi determinanti; i soldi che le sezioni CAI o le ditte costruttrici di materiali che offrono affinché la spedizione possa partire, sono e saranno sempre mezzi per farla partire e non per farla arrivare che è ben più importante. La montagna non è altro che natura; l’alpinismo un’azione nella natura (mai contro la natura). L’uomo alpinista ama la natura e si sforza di mantenere un equilibrio per far sì che questo amore per la natura sia l’ecologico antidoto di un esasperato progresso che in nome di una civiltà fasulla tutto distrugge. Le grandi scalate e le lunghe spedizioni sono inevitabilmente una presa di coscienza ed una fatale ricerca di verità che rendono chi le interpreta diverso, consapevole e onesto nei confronti di un contesto sociale che proclama la fratellanza ma non è che sopraffazione.

Ultimamente ho scoperto lo sci alpinismo che, facendo molto alpinismo e molto sci, non avevo avuto tempo di praticare. E’ un attività bellissima ed un eccellente preallenamento per altre spedizioni che ho in mente di fare. Ben amministrato l’alpinismo dura tutta una vita sempre rinnovandosi e stupendomi ancora per la gioia e la genuinità che riesce sempre a darmi e che, pur sforzandomi, trovo raramente in altre manifestazioni che, accettate dalle masse, mi lasciano indifferente. Sarà anche possibile che con l’andar del tempo un nuovo ideale più elevato e più utile alla gente mi affascini, ma se un ideale mi dovesse assorbire in futuro, sarà senz’altro il frutto dell’insegnamento che ne ho tratto dalla pratica di un attività grande e umana come l’alpinismo.

Guido Machetto

Nato a Biella il 28.05.1937

Guida, Ist. Naz., GHM

Tike Saab

Un testo di montagna unico nel suo genere.

Guido scrive storie che riguardano la montagna, i compagni, i portatori e l’ambiente con uno stile schietto e scorrevole e soprattutto assolutamente privo di retorica.

Dal titolo del libro, il saluto dei portatori Pachistani “Tike Saab”, aveva preso il nome la scuola di alpinismo delle Guide Alpine del Biellese.

Guido scrive anche altri due libri: Annapurna, la storia della sfortunata spedizione del ’73 e Sette anni contro il Tirich in collaborazione con Riccardo Varvelli.

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